L’Università di Bari ha ridotto le tasse per le studentesse che si iscrivono ad alcuni corsi di laurea a prevalenza maschile, come quello d’informatica, fisica, data science e tecnologia dei materiali. E la notizia ha fatto molto discutere.
Qualcuno ha urlato al sessismo: perché abbassiamo le tasse alle donne ma non agli uomini? Esistono facoltà a prevalenza anche femminile, no? Questa è una vera ingiustizia, poveri uomini, nessuno pensa mai a loro. Ecco, vorrei provare a spiegare perché no, non è affatto sessismo (anche perché non esiste il “sessismo al contrario”). Tutt’al più si potrebbe ribattere che una misura del genere è sì utile per colmare il gender gap, ma non basta a combattere gli stereotipi di genere che tengono lontane le donne dalle facoltà scientifiche. Il lavoro culturale che andrebbe fatto è molto più profondo (è evidente, visto come è stata presa la notizia).
Ma andiamo con ordine.
Ricordiamoci del patriarcato
Italia, 1874: le donne hanno ottenuto il diritto di iscriversi ai licei e alle università. Italia, 1907: Ernestina Prola è stata la prima donna italiana a prendere la patente. Italia, 1908: Emma Strada è stata la prima laureata italiana in ingegneria. Italia, 1945: le donne hanno ottenuto il diritto di voto.
Essenzialmente parliamo dell’altro ieri.

Certo, nell’Italia del 2021 la parità formale è stata raggiunta, quindi perché continuare ad agevolare le donne?
La riposta non è molto complicata: la società in cui viviamo è in un ordine di genere “patriarcale”, in cui sono gli uomini che detengono il potere economico, politico e sociale. Anche se cambiano le regole, non cambia la mentalità.
Non è un caso che le donne si iscrivano a infermieristica e non a ingegneria, e che gli uomini si iscrivano a geologia e non a psicologia. Non è una “predisposizione naturale” e non è nemmeno una scelta così libera, è la società che continua a veicolare stereotipi di genere per cui se sei una donna penserai di essere più adatta a un lavoro di cura, e se sei un uomo a progettare automobili.
È ingiusto da entrambe le parti, certamente. Ma c’è una differenza: i ruoli, i lavori, gli ambiti di studio tradizionalmente maschili sono – guarda caso, ma ripeto: non è un caso – quelli più prestigiosi, di potere, quelli in cui si guadagna di più, mentre i ruoli, i lavori e gli ambiti di studio tradizionalmente femminili sono quelli umili, in cui si guadagna poco, anzi, va bene anche farlo gratis, per “vocazione”.
La Rivoluzione digitale esclude le donne
Basta pensare alle “ragazze dell’Eniac“, le prime calcolatrici umane, le informatiche che collaboravano con la NASA. Ai tempi, fare l’informatica era considerato una “cosa da segretaria”, quindi da donna. Poi, appena capita la potenzialità di quella tecnologia, l’informatica è diventata un “lavoro da uomini”.
Oggi le donne iscritte a facoltà ingegneristiche e informatiche rappresentano solo il 23% in Italia. E sì, questo è un problema perché quali specializzazioni sono più richieste in questa Rivoluzione Digitale che stiamo vivendo? No, non quella in lettere classiche, purtroppo.
I settori ingegneristici e informatici sono il futuro del lavoro e “le donne staranno a guardare“, dice la professoressa Tiziana Catarci, direttrice del dipartimento di ingegneria informatica alla Sapienza, al Messaggero. “La rivoluzione si sta svolgendo senza il contributo rilevante delle donne: sempre in minor numero nel mondo occidentale scelgono professioni scientifiche“.

Quindi, fermo restando che gli stereotipi di genere sono dannosi per tutt*, incentivare l’iscrizione delle studentesse ai corsi di laurea a prevalenza maschile è un modo per provare a equilibrare il potere economico, sociale e politico, sperando di dare un posto anche alle donne nel futuro lavorativo italiano.
Quando le donne saranno viste alla pari degli uomini e “le cose da femmina” (come prendersi cura degli altri, parlare di emozioni e leggere romanzi) non saranno più viste come “negative“, gli uomini, poi, non si faranno molti scrupoli a iscriversi a scienze della formazione primaria, se lo desiderano. Ma non è una priorità occuparsi di questo adesso, bisogna prima raggiungere la parità di genere reale (non solo formale). E per raggiungerla c’è bisogno di misure a favore del genere più svantaggiato, che sì da secoli e ancora adesso è quello femminile.
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